Se mi fermo a guardare lo vedo sempre lì, nella stessa posizione, con gli occhi fissi su di me. Una figura inquietante ma discreta, seriosa e insieme distante. E’ piccolo, ben vestito, con giacca e cravatta, e in mano ha sempre una valigia di colore marrone. Ha dei sottili baffi scurissimi che gli incorniciano le labbra, quasi a farle scomparire, e un buffo paio di occhiali rotondi, una montatura d’altri tempi. Ha i capelli neri e pettinati con la divisa su una parte. E mi fissa. Mi fissa sempre.
Alla fine ho deciso di avvicinarlo. “Scusi, ma perché mi fissa? Ci conosciamo”.
Lui resta in silenzio e mi fissa.
Io: “Posso sapere perché mi guarda con così tanta insistenza?”.
Lui: “Mi dovresti conoscere”.
Confesso che mi spiazza. Dopo qualche istante replico decisa: “Temo di no, credo che lei si stia sbagliando, magari mi ha confuso con un’altra persona…”.
Lui: “Non credo”.
Mi lascia perplessa. Io: “Ma qual è il suo nome?”.
Lui: “Sono il giudizio. E credo che questo tu lo sappia bene…”.
Se il giudizio avesse delle sembianze è esattamente così che me lo immaginerei. E se ci potessimo presentare è proprio così che mi figurerei il nostro primo dialogo. La sua presenza sarebbe urticante tanto quanto queste brevi battute così spinose e supponenti. Se lo chiedessi a un’altra persona, però, sono convinta che la risposta sarebbe diversa… Questo perché ognuno filtra la realtà con i propri parametri – non oggettivi ma, di solito, ad uso e consumo di ciò che più ci piace, giusto per entrare nel merito – e poi perché non tutti diamo lo stesso valore al giudizio.
Per alcuni è semplicemente la possibilità di esprimere un’opinione – e spesso il confine è talmente labile da sfociare nel giudizio senza averne consapevolezza -, per altri un modo per affermare se stessi. Per altri ancora invece è soltanto la volontà di dire la propria, universale – anche se non condivisa da tutti – ragione.
Il giudizio è sempre in agguato, proprio come il piccoletto che mi fissa con quegli occhi neri e penetranti, pronto a camuffarsi in qualcosa di “per bene” – e infatti il singnorino è vestito di tutto punto -, discreto, ma sempre molto attento a cogliere tutte le sfumature. Ma la vera curiosità è sapere che cosa porta nella borsa. Quella valigia marrone da cui non si stacca mai, che cosa nasconderà al suo interno?
Pensa e ripensa, alla fine un’idea mi è venuta: e se fosse la convinzione? Dentro la valigia quell’omuncolo baffuto e arcigno – giusto per non giudicare! – porta con sé la convinzione. E in effetti il giudizio – seppur molte volte sbagliato – ha alla base la convinzione della nostra verità e della nostra superiorità. E infatti il Singnor G. – che non è di Gaberiana memoria, ma solo l’abbreviazione di Signor Giudizio – questo lo sa bene: la convinzione è qualcosa che ci portiamo con noi come fosse una valigia, sempre pronti a sostituire il suo contenuto con ciò che ci fa più comodo al momento. E così ne siamo custodi gelosi, amanti taciuti, nemici inseparabili ma di certo c’è che la nostra convinzione ce la teniamo ben stretta perché con lei abbiamo la giusta ragione di giudicare!
E intanto quel piccoletto sta ancora là, vestito di tutto punto, con la sua valigia marrone in mano, intento a fissarmi. Il giudizio è con noi, si nutre continuamente delle nostre più solide convinzioni e capita che ci faccia deragliare come i vecchi vagoni a vapore sbandano sui binari rotti, dandoci immagini opache e distorte di noi e di ciò che ci circonda.
Il signor G ci fissa inesorabile con sguardo severo e arcigno, lo stesso con il quale ci guardiamo anche noi, giudici implacabilmente convinti di essere ragionevolmente nel giusto. O sbaglio?!