Capire o sentire. Che fare se il cervello ci manda fuori strada?

Non c’è sempre necessità di capire tutto. Quante volte ci accadono cose senza che ne sappiamo il perché? Oppure senza comprenderne il senso, neanche dopo tanti anni e milioni di “rimuginamenti”? Quello che trovo sorprendente è che dentro di noi c’è comunque una sorta di volontà primordiale, una spinta “antica” (se si può chiamare così), un’irresistibile tentazione a voler capire. E che succede quando tentiamo di farlo? Che si rischia di voler capire ciò che ci fa “comodo” capire, che “ci piace” capire, a seconda del momento preciso in cui siamo (che non è mai uguale).

Gilles Deleuze (un filosofo francese del ‘900) sosteneva che esiste la verità intesa come concetto assoluto e totale, al quale noi umani però non abbiamo accesso, a causa della nostra natura di esseri finiti. Secondo lui, noi possiamo conoscere solo una porzione, più o meno ampia, a seconda di quanto siamo disposti ad ampliare il punto di vista e di quanto la nostra mente possa concepire. Tenendo presente questa definizione che, lo confesso, mi piace molto, ho sempre cercato di restare attenta e curiosa a ciò che mi accade, in modo da poter avere a disposizione quel pezzettino in più di verità (che diventa quindi conoscenza), avendo ben in mente che la mia sarà sempre e solo una parte di essa, mai il tutto.

Capite bene quindi che, spesso, cercare di dare una spiegazione a tutto ciò che ci accade non è poi così necessario: da una parte perché rischiamo di aggiustarci le cose secondo i nostri gusti, falsandole (come ho già detto prima), e poi perché, ciò che sappiamo, non è che una (piccola, ahimé!) parte del tutto che, però, siamo subito pronti ad far diventare una verità assoluta. Nonostante ciò, capire, incasellare e spiegare per noi sono comunque delle reali necessità. Questo mi ha fatto pensare a quanta importanza diamo alla comprensione e così poca al sentire e all’affidarsi, aspetti che nulla hanno a che vedere con il cervello ma molto invece con il cuore e l’intuito.

Capire ci è veramente necessario ma solo in alcuni ambiti della nostra vita: per esempio quando facciamo la spesa, lavoriamo o svolgiamo altre azioni molto pratiche dove è fondamentale accendere il cervello (e ci mancherebbe!). Che cosa succede però se “accendo il cervello” quando invece basterebbe lasciar andare, affidarsi e mollare la presa, azioni che forse hanno bisogno di essere sentite più che capite? Che finiamo per combinare dei grandissimi pasticci!

Perché usiamo il mezzo sbagliato. E’ come mettersi le infradito per camminare sugli scogli oppure i tacchi a spillo per fare i 100 metri piani (anche se in effetti esiste una gara di pazzi che lo fanno veramente…) oppure mangiare la minestra con la forchetta. Il fatto è che capire è un istinto che è stato molto sviluppato soprattutto negli anni della nostra formazione, penso all’istruzione e all’educazione, e questo non lo considero un male, intendiamoci! Il problema è che però l’essere umano ha necessità anche di sentire, e questo non lo sappiamo fare affatto o lo facciamo poco e male.

Sentire vuol dire avere il contatto con noi stessi (che grande tema!), l’unica, vera e sola fonte di verità: quello che sentiamo è sempre giusto, anche se poi sbagliamo! Lo so che sembro contraddittoria, ma vi assicuro di no. Le migliori lezioni si imparano dai propri errori (e fin qui siamo tutti d’accordo); se questi nascono da nostre intime convinzioni di essere nella verità, anche se poi nei fatti non si rivelano così, fanno comunque aumentare le chance di crescere e ci abituano ad essere in contatto con noi stessi, permettendoci di fare allenamento (che non è poco!).

Capire ci costringe a pensare. Pensare spesse volte, invece di diventare riflessione, diventa rimuginare. E arriva un momento in cui è necessario rompere questo ingranaggio. Quando ci accorgiamo che la testa inizia a fumare (per davvero!) e che i nostri pensieri non ci portano da nessuna parte, dobbiamo staccare la spina perché vuol dire che non c’è nulla da capire. C’è da sentire. Ci fermiamo un attimo e iniziamo a smettere di pensare. All’inizio è difficilissimo perché pensare è un’abitudine. Chi di noi riesce a non pensare? Forse un monaco che fa ore di meditazione al giorno da anni ce la può anche fare, ma le persone che non lo fanno mai non arrivano e lo fanno, lo so bene! In più, appena proviamo a sentire, i pensieri tornano prepotentemente a farsi sentire, appunto.

Ci vuole pazienza, dedizione, costanza, allenamento e attenzione. Stare attenti a quando ci affatica il nostro modo di pensare è il primo passo verso il sentire. Le prime volte va male, ve lo dico chiaramente, ma ad un certo punto qualcosa si muove e iniziamo a sentire. E scopriamo un mondo sommerso, un mare enorme, pieno di aspetti belli e brutti: ecco, quelli siamo noi! Vi auguro di capire il meno possibile e di sentire più che potete per provare la bellissima sensazione di incontrarvi, per la prima volta.

Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il cuore ama naturalmente l’Essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge verso di lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione. Voi avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate forse voi stessi per ragione?

Blaise Pascal

2 risposte a “Capire o sentire. Che fare se il cervello ci manda fuori strada?”

  1. Bellissimo, profondo e a tratti divulgativo. Complimenti! Ti ho ascoltata con piacere

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  2. Ciao Feffe, mi ha veramente appassionata questo tuo articolo… Forse perché mi trovo in un periodo in cui mi sto fissando a cercare di capire perché ho fatto delle scelte, in passato, legate al mio sentire. E niente. È come scrivi tu, a volte per cercare (inutilmente) di capire e di capirci, entriamo in un loop che non ci porta da nessuna parte. C’è il momento di sentire ed il momento per capire… Bisogna proprio impararlo.

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