Una boccata d’ossigeno. Questa è la sensazione più netta che provo quando accade. E’ come se mi mettessero una di quelle mascherine orrende ma che ti fanno respirare, e dopo due o tre inalazioni a pieni polmoni senti il torace che si allarga, che respira. Così fa la nostra anima quando incontriamo qualcuno che sa parlare il suo linguaggio, una lingua fatta di parole scelte con la lente della sensibilità, senza quelle approssimazioni che nascono solo dalla volontà di togliersi dall’imbarazzo della conversazione, dalla (illusoria) necessità di dover riempire un silenzio che terrorizza.
Chi parla il linguaggio dell’anima non prova mai imbarazzo, perché si ascolta e quando parla è talmente a contatto con il suo pensiero, il suo sé, che non ha dubbi e non teme il giudizio: ciò che sta dicendo è esattamente quello che la sua anima vorrebbe dire.
Purtroppo è raro, troppo raro, ma quando succede di incontrare persone così, è veramente difficile sbagliarsi. Non hanno bisogno di ricorrere al giudizio. In loro ci sono umiltà e ascolto, perché con la loro anima si comportano in questo modo e così fanno anche con chi hanno davanti, senza distinzione, come se fosse una (sana) abitudine. Certo, di fronte alle loro affermazioni, alle riflessioni ponderate che ci sottopongono, possiamo anche essere in disaccordo, ma la dignità con cui esprimono il loro pensiero ci impedisce di essere irrispettosi e in noi si anima un sentimento di ammirazione che non è per forza condivisione ma sicuramente rispetto.
Quando mi capitano conversazioni simili, non sento il bisogno di parlare ma solo di ascoltare. E’ come se l’anima stesse respirando e mi dispiace sempre un po’ disturbarla. E allora mi domanda perché parlare in questo modo sia così raro. Perché ci si accontenta di un linguaggio sciatto e approssimativo? Forse perché non bisogna dare per scontato che tutti sappiano dell’esistenza di questo linguaggio. E allora è giusto (e doveroso) iniziare a raccontare che esiste.
Comunicare è una delle cose più difficili che si possano fare a questo mondo. Ma anche la più importante. Comunicare (verbalmente) richiede un enorme coraggio. Se voglio mandare un messaggio ad un’altra persona, per prima cosa devo essere disposta a capire qual è la mia intenzione. Che cosa voglio veramente dirle? E già questo non mi pare facilissimo…. Quante volte parliamo senza avere chiaro dentro di noi che cosa vogliamo realmente dire? Il più delle volte. Tant’è che in alcuni momenti mi dico “ma perché ho detto così, mica lo volevo dire…”. E a volte compromettiamo persino delle relazioni…
Quando ho chiaro ciò che voglio dire, occorre poi pensare a come dirlo perché questo sia efficace. Scegliere con accuratezza le parole sarebbe già qualcosa, un primo inizio. Non importano vocaboli altisonanti o rari, occorre che siano chiare, aderenti al nostro “sentire”. Questo secondo passo mi pare quasi impossibile senza il primo. Sì, perché se non ascolto e faccio chiarezza dentro di me, sarà difficile che riesca a trovare le parole giuste. Nanni Moretti diceva “chi pensa male parla male”, pensiero netto, ma niente di più vero.
La metà delle volte in cui ci troviamo in mezzo a fraintendimenti è perché abbiamo mandato all’altro un messaggio che diventa sbagliato perché maturato senza essere a contatto con noi stessi. L’altra metà invece dipende da chi ascolta, quanto e come filtra ciò che gli viene detto, sulla base delle sovrastrutture che ci sono dentro ognuno di noi e che inevitabilmente ci condizionano nel complesso sistema della comunicazione (verbale).
Ora, mentre sulla seconda parte non possiamo fare nulla, invece possiamo intervenire sul primo aspetto. Solo su di noi abbiamo potere, solo su di noi possiamo lavorare (sempre se ne abbiamo voglia, s’intende…) per comunicare in maniera pulita e aderente al nostro pensiero, manifestando una dignità d’espressione che renderà il nostro messaggio efficace.
Divertiamoci a sperimentare il linguaggio, a scegliere le parole “giuste” e poi osserviamo come cambia il messaggio quando comunichiamo con consapevolezza: solo così potremo instaurare rapporti umani di qualità dove il giudizio resta in disparte per far spazio all’ascolto e il rispetto diviene un terreno naturale dove le riflessioni di ognuno possono germogliare e fortificarsi l’una accanto all’altra. Modalità che oggi (ahimé) resta rara, una boccata d’ossigeno nell’apnea del quotidiano.