Esiste un preciso istante in cui siamo travolti da un irrefrenabile rigurgito di parole, un momento esatto in cui la ragione lascia prepotentemente il passo alle emozioni, in una sbrodolatura di frasi accomunate da un intento unico: la lamentela.
Mi capita con frequenza di assistere a lamentele di ogni tipo, da quelle del momento a quelle croniche (per così dire), quelle che non cambiano nonostante tutto cambi. Solite frasi, parole, punteggiature e spazi bianchi, come su una partitura già scritta, in una vertigine di parole che vanno a fondo senza mai toccarlo. E la cosa sconcertante è la fatica che si fa ad ascoltarle.
Se le tanto accattivanti sirene dell’Odissea invece di cantare avessero offerto lamentele ad Ulisse, mi sa che lui non si sarebbe fatto legare all’albero maestro, ma avrebbe cercato di annegarsi, giusto per creare un diversivo.
Qualcuno forse nasce così, nel senso che quando lo assemblano gli mettono dentro una memoria intrisa di lamentele, e lui si limita semplicemente a utilizzare la lagna più vicina alla situazione che si trova a vivere. Altri invece si allenano, un po’ come se si preparassero alle Olimpiadi della lamentela. E devo dire che, negli anni, e con tanto sacrificio, i risultati arrivano!
A volte penso che ci si affezioni anche alle lamentele… per qualcuno sono un po’ come la copertina di Linus, un atteggiamento da non perdere perché in esso, diciamo la verità, ci riconosciamo, ci sentiamo a casa, confortati. Bene. Ora, il problema nasce per chi ascolta. Sì, perché stare a sentire lunghi minuti di sproloqui lagnosi su questioni assolutamente estranee e, per chi ne è fuori, circoscritti, persino risolvibili spostando il punto di vista, per chi racconta sono il centro del mondo intero. Ma non tanto gli argomenti, proprio le lamentele. Assume più importanza lamentarsi che ciò per cui ci lamentiamo. Perché ci fa illudere di essere più profondi, più seri, più sfortunati, in due parole “più vittime”, in questo mondo così ingiusto e crudele (ahimé).
E purtroppo è un attimo lasciarsi ammaliare dalla lagna. Se lasci correre, o peggio, se tenti di ridimensionare, l’atteggiamento di chi si lagna diventa: “tu non capisci l’importanza di quello che ti sto dicendo”. E se fosse invece che ne capisco l’importanza e proprio per questo cerco di rimettere la barca in pari? E scatta il piano B: “tu non capisci ciò di cui ti sto parlando e allora sei insensibile”. Ecco fatto. Signore e signori vi presento il “senso di colpa”. Uno dei più grandi nemici dell’evoluzione umana, strumento potentissimo per chi vuol raggiungere un proprio obiettivo attraverso (o con l’aiuto più o meno consapevole) di un’altra persona che non è d’accordo e non vuole farlo, facendola sembrare la cosa più naturale da fare, l’unica possibile.
Mi viene da fare un’altra considerazione. Se invece di impiegare tante energie per lamentarsi, la stessa quantità (né una di più, né una di meno) la impiegassimo per rimboccarci le maniche e perseguire il nostro obiettivo, non avremmo risultati più efficaci? E se accettassimo che ciò che ci accade (anche se non lo capiamo o non ci piace) è sempre il meglio per noi e per la nostra crescita, che senso avrebbe lamentarsi? E se quando proprio proprio non ce la facciamo più, chiediamo con semplicità e onestà aiuto a chi ci sta vicino, invece di lamentarsi, non sarebbe più utile? Che sia facile non l’ho mai detto, ma provarci anche solo per il gusto di avere un’alternativa alla lamentela, invece di una lamentela alternativa?
Le lamentele non lasciano spazio a soluzioni e non creano alternative, sono sfoghi del momento, effimere e dispersive valvole di sfogo che non lasciano nulla, se non la voglia di ricominciare a lamentarsi, la via più breve (e comoda) per fuggire da noi stessi.
Basta, ora la smetto di lamentarmi.